Firenze, 1970: una donna ripercorre in una lettera gli attimi più bui della sua esistenza. Ma è proprio quando tutto sembra finire che Silvia rivede se stessa da bambina e si ricorda la promessa che, un tempo, si era fatta. Non mancherà più a tale promessa: si lascerà una lettera in eredità per la Silvia che verrà, da leggere ogni volta che la sua fragilità busserà alla porta, così che la forza della vita possa trionfare ancora una volta sulla paura. Buona lettura!
Firenze, 14 aprile 1970
Carissima Silvia,
sì, ora posso dirlo: carissima. La penna scorre veloce su questa carta rugosa mentre una mano fin troppo tremula ne ricava sostegno, quasi l’inchiostro conoscesse già la sua missione. Quanto vorrei dirti! Quanto confidarti! Di certo, sarai meravigliata da questa mia corrispondenza e non ti nascondo che anche io, un poco, lo sono.
Sono cambiata, Silvia. Mi pare quasi di sentire la tua squillante risata nel leggere queste parole, ma credimi, sono cambiata davvero! Ti dirò di più: questo rinnovamento d’animo è proprio merito tuo. Lo so, lo so: a questo punto la tua espressione sarà divenuta sospettosa, il sorriso tirato. Ti conosco ormai. Non posare la lettera, Silvia: non ti sto prendendo in giro. Ti devo delle scuse, oltre che delle spiegazioni per questo mio atteggiamento così misterioso. Ti prego di avere pazienza e di darmi il tempo necessario. Ti chiedo solo un po’ di fiducia.
Sono maturata, Silvia. Sì, nonostante il mio disperato orgoglio, sono maturata. Lo sai meglio di me: le migliori armature non proteggono il soldato gracile, anzi, lo schiacciano. Sono passati molti anni, ma ho finalmente capito che arroccarsi sulle proprie posizioni non porta da nessuna parte, se non a rimanere sola. Credimi, diventar padrona di questo pensiero mi è costata molta, molta fatica. All’inizio non accettavo confronti, di nessun tipo: volevo vinte tutte le battaglie, piegate tutte le teste. Ma poi l’amore ha aperto una sottilissima crepa dentro di me e, se da una parte sono apparsa più fragile, dall’altra la luce è finalmente potuta entrare (aveva proprio ragione Cohen!). Così, a piccoli passi, ho compreso che imparare a chiedere “scusa” porta molto più beneficio a chi lo dice piuttosto che a chi lo riceve.
Sono divenuta più spontanea, Silvia. Ho imparato a sorridere dei guai che, forse, così male non sono; ho intuito quanto bella fosse la vita e quanto fortunata fossi io a vivere così. Anzi, ti dirò di più: mi sono sorpresa nel provare fastidio per gli atteggiamenti di un tempo e il mio sguardo si è indirizzato verso chi aveva meno di me. Pensavo, stoltamente, che mi sarei impoverita, seppur per una giusta causa, ma, ancora una volta, mi sono riscoperta più ricca di prima.
Sono diventata più intraprendente, Silvia. Ho iniziato a dipingere e a suonare, due arti che avrei sempre voluto apprendere, ma su cui non mi sono mai data abbastanza fiducia. Mi ritenevo troppo incapace e tu lo sai. Sono ancora molto severa con me stessa, ma credo di essere migliorata persino in questo. Sto imparando anche ad essere più autocritica: il mio ultimo “en plein air” inizia a mostrare il frutto delle tecniche apprese. Non sarò il nuovo Monet, ma sai che ti dico? Va bene così.
Ti confesso Silvia di essere giunta ad un punto della mia vita in cui pensavo di essere padrona di ogni cosa; ed è proprio in questi momenti che la vita colpisce più forte, quasi non conoscesse la pietà. Una sera di inverno, il mio grande amore mi ha abbandonato, rapito dal profumo di una giovane inglese. In un istante tutto quello che avevamo costruito, tutti i nostri progetti, la nostra intimità, tutto, tutto, tutto, per Dio, tutto! Tutto è svanito nel nulla. E quasi la beffa non potesse lasciar solo il danno, tutti i fantasmi del passato sono tornati alla loro macabra danza nella mia testa. Ho iniziato a vedere nero, quasi i miei occhi non meritassero più di godere dei colori del mondo. La mia vita non aveva più valore.
Ricordo bene quella sera di febbraio: il freddo tagliente sulla terrazza del palazzo, l’abisso di cemento che si apriva sotto i miei occhi; le gambe tremanti, quasi non mi sorreggessero più. Ero pervasa solamente dal ribrezzo verso ciò che ero, verso la Silvia che pensavo di essere diventata, ma che in realtà non era stata altro che una maschera. Una maschera, sì, perché avevo commesso l’errore più grande: non aver mai imparato veramente a volermi bene. Ho chiuso gli occhi: bastava solamente un passo…
È stata questione di un attimo. Ho rivisto i nostri genitori, uniti come un tempo, nostro fratello Enrico, con il suo fare spavaldo e il sorriso buono, nonno Mario con i suoi modi grezzi e nonna Albertina con il suo sguardo autentico. Poi sei riapparsa tu. Mi aspettavo fossi molto arrabbiata, per come ti avevo trasformata, per la donna che eri divenuta a causa mia; invece mi hai sorriso e hai iniziato a parlare. E nell’attimo più buio, le tue parole mi sono giunte come carezze ad un cane bastonato. Di nuovo una crepa si è aperta nel mio cuore, di nuovo la luce ha potuto entrare: senza accorgermene avevi già fermato il mio passo.
È per questo che ti scrivo, cara Silvia. Quella sera sono rinata, siamo rinate insieme. È stato come svegliarsi da un lungo sonno che ci aveva intorpidito l’anima ed il cuore. Ti confesso che, se avessi potuto, avrei tanto voluto reincontrarti per trascorrere insieme, ancora una volta, quei pomeriggi di giochi; ma siccome il tempo non può essere modellato a nostro piacimento, mi limiterò a tenere in guardia la Silvia adulta dalla mancanza di amor proprio, lasciandole in eredità questa lettera. Le porterò conforto. Le ricorderò che nella vita si può essere fragili, senza per questo sentirsi sbagliati; e che a questo folle mondo ci può essere posto anche per noi.
Non verrò meno alla nostra promessa, Silvia, mai più: mi scriverò una lettera ogni cinque anni, come desideravi, ed il tuo inno alla vita riecheggerà più forte della paura. Non posso garantirti di non cadere ancora, ma forse il bello della vita è proprio questo: avere sempre una seconda possibilità.
Tua per sempre,
Silvia