Ogni giorno imparavo qualche cosa sul pianeta, sulla partenza, sul viaggio. Veniva da sé, per qualche riflessione.
Fu così che al terzo giorno conobbi il dramma dei baobab. Anche questa volta fu merito della pecora, perché’ bruscamente il piccolo principe mi interrogò, come preso da un grave dubbio:
“E’ proprio vero che le pecore mangiano gli arbusti?”
“Si, è vero”.
“Ah! Sono contento”.
Non capii perché’ era così importante che le pecore mangiassero gli arbusti. Ma il piccolo principe continuò: “Allora mangiano anche i baobab?”
Feci osservare al piccolo principe che i baobab non sono degli arbusti, ma degli alberi grandi come chiese e che se anche non avesse portato con sé una mandria di elefanti, non sarebbe venuto a capo di un solo baobab.
L’idea della mandria di elefanti fece ridere il piccolo principe: “Bisognerebbe metterli gli uni su gli altri…”
Ma osservò saggiamente: “I baobab prima di diventar grandi cominciano con l’essere piccoli”.
[…]
Infatti, sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive.
Di conseguenza: dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive.
Ma i semi sono invisibili.
Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi.
Allora si stira, e sospinge da principio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo.
Ma se si tratta di una pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si è riconosciuta.
C’erano dei terribili semi sul pianeta del piccolo principe: erano i semi dei baobab.
Il suolo ne era infestato. Ora, un baobab, se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene.
Ingombra tutto il pianeta. Lo trapassa con le sue radici.
E se il pianeta è troppo piccolo e i baobab troppo numerosi, lo fanno scoppiare.
“E’ una questione di disciplina”, mi diceva più tardi il piccolo principe.
“Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli.
È un lavoro molto noioso, ma facile”.
La conoscenza continua: nuovo giorno, nuova scoperta. Il quinto capitolo si apre con quello che Exupéry definisce il dramma dei baobab. Il Piccolo Principe, date le dimensioni dell’asteroide B612, è costretto a prendersi quotidianamente cura del terreno del pianeta, per evitare che i cattivi semi di erbe cattive prendano il sopravvento rischiando, come nel caso dei baobab, di ingombrare tutto il pianeta, trapassarlo con le radici e farlo scoppiare. A primo impatto, questo incipit si presenta come una semplice descrizione botanica, per certi versi ovvia: molti di voi già sanno quanto sia necessario che le erbacce vengano sradicate il prima possibile affinché i buoni semi crescano e si tramutino in erbe buone senza venir, come si è soliti dire, ‘soffocate’. Tuttavia, mi sento di dire che anche in questa parte del suo romanzo, l’autore ci abbia voluto lasciare un messaggio tra le righe o, forse, un vero e proprio avvertimento.
Il capitolo è, a mio parere, un inno al non sottostimare la banalità del male: quei semi che tanto impauriscono il piccolo non sono altro che i primi accenni di un volgersi ad un lato oscuro, ignoto e soprattutto, sottovalutato. Badate bene: il male non si presenta dichiarandosi apertamente, mostrandosi nella sua forza e nel suo ‘splendore’ (“I baobab prima di diventar grandi cominciano con l’essere piccoli”); probabilmente, sotto questo aspetto non riuscirebbe a trarre a sé la maggior parte dei suoi ‘seguaci’ che, inorriditi, tenterebbero piuttosto di mantenersi alla larga.
Exupéry ne fa una descrizione tanto semplice quanto magistrale. Nel parlare dei cattivi semi di erbe cattive, l’autore afferma: ‘Dormono nel segreto della terra fino a che all’uno o all’altro pigli la fantasia di risvegliarsi. Allora si stira, e sospinge da principio timidamente verso il sole un bellissimo ramoscello inoffensivo’. Il male si insinua in maniera quasi impercettibile, come un virus, fino a diventare parte integrante del nostro essere; e proprio in questo sta la sua forza. In questo passo, i baobab ne diventano l’emblema, proprio per l’estremo divario che c’è tra il loro essere seme e il divenire piante ‘adulte’ (un baobab può infatti raggiungere i 25/30 m di altezza).
Exupéry ci mette in guardia: non lasciatevi affascinare da quel ramoscello inoffensivo, anzi; imparate a riconoscerne la presenza quanto prima possibile e a sbarazzarvene, o la conseguenza potrebbe rivelarsi catastrofica. Così, quel pianeta lacerato diviene il nostro volto sfigurato dal male; il terreno infestato dalle troppe radici, un cuore ormai irriconoscibile.
Dato che ho preso in prestito il titolo di uno dei suoi saggi più celebri (la Banalità del male, appunto), non posso non citare il pensiero di Hannah Arendt. Nel trattare un resoconto sul processo ai danni di Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961, ella insiste sulla condizione dell’imputato, uomo mediocre privo di coscienza ed identità che scelse l’ignoranza e sottostimò quel potere oscuro che aveva abbracciato, forse con troppa leggerezza: il nazismo. Nella fredda macchina nazista, egli era responsabile di tutto l’aspetto logistico di trasporto dei prigionieri verso i campi di concentramento. Nonostante le atrocità commesse, egli dichiarò di aver semplicemente svolto ciò che gli era stato ordinato: un uomo senza identità e coscienza diviene così ingranaggio meccanico di una delle più grandi macchine del male che siamo stati in grado di costruire.
Tutti noi conosciamo purtroppo, i tristi avvenimenti che sono stati causati da quell’indifferente voltar la testa dall’altra parte, dando adito ad uno dei più infimi momenti della cosiddetta ‘umanità’. Riguardo il male, ella dichiara: Quel che ora penso veramente è che il male […] può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.
Il male ti priva prima di tutto di un pensiero proprio, capace di andare in profondità. Per fare del male non è necessario progettarlo, esserne il capo ideologico; basta solamente soggiogarsi ad esso, non domandandosi più quale sia il valore (e quindi la conseguenza) delle proprie azioni.
Nel suo racconto satirico Le Lettere di Berlicche, C.S. Lewis descrive proprio questa abilità del male di insinuarsi in modo eccellente. Il punto di vista è ribaltato: il protagonista del romanzo è un anziano diavolo di nome Berlicche che, da buon ‘educatore’ quale dev’essere, istruisce il nipote Malacoda sull’arte di essere, appunto, diavoli, così che l’essere umano affidato al nipote (il cosiddetto paziente) possa adeguatamente volgersi al male. L’idea di Lewis, beffarda e geniale, diventa così uno spunto per riflettere sulla natura dell’uomo.
In una delle tante epistole, Berlicche dichiara: ‘l’importante è di dirigere la malevolenza verso i suoi vicini immediati, verso coloro che incontra ogni giorno, e di cacciare la benevolenza lontano, nella circonferenza remota, verso gente che egli non conosce. La malevolenza diventerà così perfettamente reale, e la benevolenza in gran parte immaginaria’.
Prosegue: ‘Tutti gli estremi […] sono da incoraggiarsi. Non sempre, naturalmente, ma sì in questo periodo. (E badate bene, stiamo parlando proprio degli stessi anni in cui è stato ideato e pubblicato il Piccolo Principe! Il racconto di Lewis è infatti uscito nel 1942, solamente un anno prima rispetto al romanzo di Exupery). […] Qualsiasi piccola cricca, tenuta insieme da qualche interesse che gli altri ignorano o che dispiace, tende a sviluppare nel suo seno un’ammirazione reciproca, da serra, e verso il mondo esterno un bel po’ d’orgoglio e di odio ai quali si concede senza vergogna perché la “Causa” ne è garante e perché si pensa che quel sentimento sia impersonale’. L’anziano diavolo è chiaro: rendi il male parte della quotidianità e, soprattutto, sempre giustificato e spesso inconsapevolmente attuato: l’uomo sarà tuo.
Berlicche prosegue: ‘Vedi, è tanto difficile per queste creature (riferendosi agli uomini) perseverare’; ed è proprio dalla mancanza di disciplina che il Piccolo Principe ci vuole mettere in guardia. Il bimbo ci confida: “E’ una questione di disciplina […] Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli. È un lavoro molto noioso, ma facile”.
Nonostante la giovane età, il Piccolo Principe ha ben chiaro cosa sia il duro lavoro ed il perseverare, non intesi come il rigido ripetersi di azioni prive di significato, ma guidate da una ragione che basta a motivare la fatica del quotidiano e che finiscono anzi per renderla sacra: il sacrificio, appunto. La quotidianità non va sottovalutata: è composta da gesti tanto semplici quanto grandiosi, perché, nel loro susseguirsi, ci portano ad incontrare il nostro destino. Quali gesti compongono la nostra giornata? A cosa diamo importanza? E soprattutto: siamo consapevoli che ogni nostra azione, come ben Newton ci insegna, ha essa stessa una conseguenza?
Nel riprendere questa legge, vorrei fare un accorato appello a genitori ed insegnanti: non sottovalutate il potere dell’educazione e soprattutto, rendetevi conto di quanto possiate essere o meno modelli. La disciplina, infatti, si può solo apprendere imparando da qualcuno: divenendo, appunto, discepoli. I veri maestri sono infatti capaci, in un certo senso, di svoltarti la vita: come la pecora resta a fianco del Piccolo Principe nella lotta contro i baobab, così quelli, con i loro insegnamenti, restano al nostro fianco nella lotta contro il male, sotto qualsiasi forma esso decida di presentarsi.
Il capitolo non può che concludersi con le stesse parole di Exupéry, monito per i discepoli e inno alla fatica del quotidiano. Molte parole sono già state spese: lascio a voi le ultime riflessioni.
“Se un giorno viaggeranno “, mi diceva, “questo consiglio gli potrà servire.
Qualche volta è senza inconvenienti rimettere a più tardi il proprio lavoro.
Ma se si tratta dei baobab è sempre una catastrofe.
Ho conosciuto un pianeta abitato da un pigro.
Aveva trascurato gli arbusti…”
E sull’indicazione del piccolo principe ho disegnato quel pianeta.
Non mi piace prendere il tono del moralista.
Ma il pericolo dei baobab è così poco conosciuto, e i rischi che correrebbe chi si smarrisse su un asteroide, così gravi, che una volta tanto ho fatto eccezione.
E dico: “Bambini! Fate attenzione ai baobab!”
E per avvertire i miei amici di un pericolo che hanno sempre sfiorato, come me stesso, senza conoscerlo, ho tanto lavorato a questo disegno.
La lezione che davo, giustificava la fatica.
Voi mi domanderete forse: Perché’ non ci sono in questo libro altri disegni altrettanto grandiosi come quello dei baobab?
La risposta è molto semplice: Ho cercato di farne uno, ma non ci sono riuscito.
Quando ho disegnato i baobab ero animato dal sentimento dell’urgenza.
disegno di Alessandra Palombelli